22 gen 2010

Pictures of the Year: The Photographers' Choice (GB)

Brett Rogers, Director, The Photographers’ Gallery: “Surely one of the most noteworthy discoveries of 2009 was the work of the Italian born (b1969) London-based artist Maurizio Anzeri who showed his beautiful but deeply disturbing stitched portraits at The Photographers’ Gallery at the same time as exhibiting his sculptures and objects at nearby Riflemaker in Soho. Using found photographs produced by high street photographers from the mid 20th century, Anzeri weaves his own newly constructed narratives onto these ‘canvases’ to explore ideas around persona.

Sometimes they look frighteningly surreal and transform an anondyne subject into a dark cipher- at other times the glorious colouring and benign embroidery elevate his subjects well beyond the realms of portraiture. One moment you imagine that the subject was a standard studio portrait but the minute Anzeri gets to work with his needle (yes, he does all the stitching himself), the image is transformed into a new object with its own enigmatic persona. It is no wonder he emerged from sculpture – leaving the Slade in 2005 having studied Sculpture both there and at Camberwell. What direction his work takes next is anyone’s guess – in the meantime, I hear many people are delivering sackfuls of redundant momochrome studio photos to his door to have them transformed!”

http://blogs.telegraph.co.uk/culture/lucydavies/100005959/pictures-of-the-year-the-photographers-choice/

ESCAPE ARTIST, Benoit Pailley looks at Andrea Bianconi for Double magazin (GB)

Fall 2008, Issue 16, p. 10

Alice Bertay, Stylist

Patricia Regan, Hair/Make up

Marlon Daube, Assistan Stylist

Benoit Pailley presents this collaboration with Italian arist Andrea Bianconi and stylist Alice Bertay. With this assignment for Double, Pailley brought to life Bianconi’s art practice of sculpture, collage and painting. Bianconi invents costume accesories in the manner of his work that reveal his preoccupations (paranoia, fantasia and escapism) while Bertay styles his cast of characters. Like his sculptures, Bianconi, now the subject, is posed in a gallery environment of gray floor and white wall, while Pailley assumes the role of artist and manipulates his form/model into contortions that are surreal, humorous and bizarre.

photo courtesy ©Benoit Pailley


















19 gen 2010

Maurizio Anzeri, 'Un clandestino sullo schermo del volto/A Clandestine Presence on the Screen of the Face', Viana Conti (IT-GB)

(scroll for English version)

Il primo piano del cinema tratta innanzitutto il volto come un paesaggio, definendosi così come buco nero e muro bianco, schermo e cinepresa. Ma già nelle altre arti come l’architettura, la pittura, perfino il romanzo, sono i primi piani che animano e inventano ogni correlazione. E tua madre è un paesaggio o un volto? Un volto o un’officina? (Godard). Non esiste un volto che non riavvolga un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non esiste un paesaggio che non si animi di un volto amato o sognato, che non elabori un volto a venire o già passato…Il potere materno passa attraverso il volto durante l’allattamento; il potere passionale passa attraverso il volto dell’amato, anche nel palpeggiamento; Il potere politico passa attraverso il volto del capo, gli striscioni, le icone e le fotografie, pure nelle azioni di massa; Il potere del cinema passa attraverso il volto della star e il primo piano, il potere della televisione lo stesso. Il volto qui non agisce come individualità, è l’individuazione che deriva dalla necessità che ci sia un volto…Perfino le maschere assicurano l’appartenenza della testa al corpo, più che non ne rilevino un volto.

Gilles Deleuze_Félix Guattari, Mille Plateaux, Les Éditions de minuit, 1980, Parigi; pagine 212,215, 216
Presentando la prima in Italia della mostra personale Family Day, Maurizio Anzeri provocatoriamente rappresenta l’impresentabile del soggetto, della coppia, del gruppo familiare in un Paese che, con la manifestazione del 12 maggio 2007 a Roma, si è ufficialmente proposto l’obiettivo di rimettere il nucleo della famiglia tradizionale al centro della vita culturale, sociale, sessuale, economico-politica della nazione, richiamando così i simulacri del paternalismo nelle imprese e nella scuola, la moralizzazione nel risparmio, l’igienizzazione nella medicina, per restaurare quella che il sociologo Jacques Donzelot aveva, negli anni Settanta, denominato La Police des Familles. Passando dallo speculativo - il cui linguaggio dialettico sopprime l’alterità, assegna funzioni, attitudini, identità, relativamente allo stereotipo del sesso - allo speculare, ossia all’immaginario, secondo il pensiero di Klossowski, l’artista dà la parola all’indicibile, all’interiorità pulsionale, alla condizione di passaggio dal collettivo al connettivo, dal femminile e maschile al transgender, in una concatenazione di riflessioni sull’identità di se stesso, del suo doppio, dell’altro, dell’infinito dilatarsi dell’io. Come già altri esponenti internazionali dell’arte contemporanea, di entrambi i sessi, tra cui Alighiero e Boetti, Rosemarie Trockel, Francesco Vezzoli, Mona Hatoun, Rainer Ganahl, Ghada Amer, Maurizio Vetrugno, Alvaro Siza, Maria Lai, Ampelio Zappalorto, Maurizio Anzeri si esprime emblematicamente nell’installazione, nella fotografia, nel disegno, ricorrendo al cucito a macchina di matasse di capelli artificiali, e al ricamo, sistemi di segni, convenzionalmente e secondo modelli di assegnazione e di appartenenza eterodiretti, femminili. A questo proposito, tuttavia, è opportuno ricordare che il macramè, di cui fa uso questo artista non a caso ligure, viene importato in Italia nel tredicesimo secolo da marinai, che ne avevano imparato l’esecuzione dagli arabi e si diffonde in seguito soprattutto in Liguria, dove gli asciugamani vengono chiamati con questo nome. Un carattere della natura e del territorio d’origine dell’autore, ritorna nell’uso ricorrente dell’uncinetto, il cui punto base è ancor oggi quello ad anello, che riprende motivi decorativi a spiga, ventaglio, rosetta, carciofo, limone, margherita, grappolo, tramandati di generazione in generazione, rinvianti alla cultura mediterranea. In questa mostra l’artista interviene con intrecci di pulsioni, emozioni, ricordi personali su fotografie impersonali, ripescate nei mercatini delle pulci, nei bauli della nonna, negli scatoloni dimenticati in soffitta, nelle raccolte di immagini cimiteriali, con il cucito, il ricamo, il lavoro all’uncinetto, attività tradizionalmente femminili, non cessando di svelare identità velandone i molteplici volti, costruendovi sopra storie di fili colorati. Artista ligure, residente dall’adolescenza e dagli anni della formazione artistica a Londra, Maurizio Anzeri è diventato un ideatore di scenari espositivi bidimensionali e tridimensionali i cui protagonisti sono soggetti beckettianamente eclissati. Inarrivabile, lévistraussiano, tessitore di parentele, Anzeri ricostruisce figure d’affezione a partire da volti sconosciuti, da fantasmi dell’immaginario e della mente. Riportando in vita un’umanità sepolta dall’oblio, questo autore intesse un ponte di memorie tra la presenza e l’assenza, tra l’identità e l’alterità, persegue la centralità di un soggetto perennemente in fuga, inseguito da una macchina di cattura che lo coglie ora in progress ora in regress, in solitudine o in seno alla tribù, ora sui territori dell’homo faber ora su quelli remoti dell’anthropos. Disegnando una mappa geo-psico-fisica di un paesaggio del volto, l’artista dà convegno a una processione di soggetti richiamati dalla polvere dell’oblìo, da carte di identità perdute, per produrre un rispecchiamento, un gioco di riconoscimenti e smarrimenti, ricercando un’appartenenza indefinibile, perché sospinta in una continua condizione di transito.
Mentre nel patchwork, tessuto di gruppo dei nomadi, il centro non esiste, crescendo di ritaglio in ritaglio durante gli spostamenti, nel ricamo, lavorato nell’intimità domestica, come nel crochet, pur aperto in tutte le direzioni, per quanto complessi siano, si mantiene un motivo centrale.
La valenza metaforica del filo rosso, come segno di continuità spazio-temporale, diventa, nella sua opera, un ordito multicolore, che destruttura e ristruttura, ricucendole manualmente con ago, filo, uncinetto, identità cangianti e mutanti. Scrittore visionario di romanzi senza parole, ricostruttore, attraverso un concettuale ed emozionale gioco di sguardi, di familiarità e origini perdute nell’anonimato, Anzeri attiva un teatro della lontananza in cui, il singolo, la coppia, il gruppo familiare, in posa davanti al fotografo o nell’istantanea scattata nei momenti di vacanze e di svago, dialogano con lo spettatore in sala, si rianimano davanti al visitatore della mostra. Con questo artista i primi piani del volto, del busto, della figura intera, prendono le distanze dai megamanifesti urbani, dallo schermo cinematografico, dal monitor televisivo, dal display del telefonino, per ritornare alla foto in bianco e nero del Primo Novecento, all’album dei ricordi, alla parata di famiglia, che riunisce il parentado per festeggiare, tra fiori e cappellini, nuove amicizie, nuove coppie. Sequenze di volti di uomini in giacca e cravatta, di marinai e soldati in divisa, rivisitati, nel ricamo, da orbite a farfalla, baffi, barbe, ombre e luci che ne esaltano il fascino, si confrontano, in mostra, a sequenze di volti di donne, che si mostrano o si nascondono sotto fitti reticoli tonali di cotone da ricamo, cercando di scrutare, non viste, un possibile interlocutore. Di intensa connotazione antropologica, l’installazione su piedistalli metallici delle figure di famiglia, del padre e la madre: emblematici ed enigmatici agglomerati di capelli, dal volto materico, fisiognomicamente imploso.
Non cessando di pescare trame, di delineare reti più intensive che estensive, di affetti più che di effetti, Anzeri lavora sulla pretesa oggettività della fotografia, sul ritrarsi del volto nella ridefinizione del ritratto, per praticare la mise en abyme dell’identità, del rapporto relazionale, per far riaffiorare il clandestino che abita il soggetto.
Come il pittore del Seicento raffigura le Vanitas, simbolo della caducità, nelle sue Nature morte, così l’artista ligure, ricamando, ammanta di glamour, papillon, maschere seducenti, trasparenti o occlusive, raffinate o primitivamente tribali, corone, aureole, diademi, fiori, l’imprescindibile presenza del teschio, conferendo colore e calore al volto gelido e scolorito della morte.
Oscillando disinvoltamente e ironicamente dal delirio del carnevale al lutto del funerale, ai rituali della mitologia contemporanea, Maurizio Anzeri lavora a un’ininterrotta scrittura del labirinto sulle sabbie mobili dell’identità.

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“A cinema close-up treats the face first of all as a landscape, thus defining it as a black hole and a white wall, a screen and camera. But in other arts too, such as architecture, painting, even the novel, close-ups are what enliven and create every correlation. ‘So is your mother a landscape or a face? A face or a factory?’ (Godard). No face exists that does not incorporate an unknown, unexplored landscape; no landscape exists that is not enlivened by the face of someone dreamt of or loved, that does not produce a face from the future or the past... Maternal power is transmitted through the mother’s face during breast feeding; the power of passion is transmitted through the loved one’s face, even when caressing; political power is transmitted through the leader’s face, banners, icons and photographs – even through mass action; the power of cinema is transmitted through the face of the star and close-ups, and the same is true of the power of television. The function of the image here is not its individuality but the identification that arises from the need for a face... Even masks assure us that the head belongs to the body more than they replace the face.”
Gilles Deleuze and Félix Guattari, Mille Plateaux, Les Éditions de minuit, 1980, Paris; pages 212, 215, 216
Presenting the opening in Italy of his exhibition Family Day, Maurizio Anzeri provocatively depicts the unpresentable aspects of the individual, the couple and the family group in a country that, with the demonstration in Rome on 12th May 2007, officially proposed its aim of putting the traditional family nucleus back at the centre of the cultural, social, sexual and economico-political life of the nation, thus invoking the spectres of paternalism in firms and schools, of moralization in saving, and of sanitization in medicine, in order to restore what the sociologist Jacques Donzelot in the Seventies called the Police des Familles.
By moving from the speculative – whose dialectic language suppresses alterity and assigns functions, attitudes and identities in relation to gender stereotypes – to the specular, i.e., to the imaginary, Klossowski claims the artist gives voice to the inexpressible, to the inner drive, to the state of transition from the collective to the connective, from male and female to transgender, in a sequence of reflections on his own identity, his double, the ‘other’ and the infinite expansion of the ‘self’.
Like other male and female international exponents of contemporary art, such as Alighiero and Boetti, Rosemarie Trockel, Francesco Vezzoli, Mona Hatoun, Rainer Ganahl, Ghada Amer, Maurizio Vetrugno, Alvaro Siza, Maria Lai and Ampelio Zappalorto, Maurizio Anzeri expresses himself symbolically through installations, photography, and drawing, he also machine sews hanks of false hair and uses embroidery – sign systems that according to convention and assigned and other-directed models, are considered feminine. However, it should be remembered that the macramé used by this artist, who happens to be from Liguria, was brought to Italy in the thirteenth century by sailors who had learned it from the Arabs, and that the art spread particularly in Liguria, where macramé is a word used for towels.
A characteristic of the nature and place of origin of the artist reappears in the recurrent use of crochet, whose basic stitch is still the ring, incorporating decorative motifs such as the ear of corn, fan, rosette, artichoke, lemon, daisy and cluster, handed down from one generation to the next and a reference to Mediterranean culture.
For this exhibition, the artist has used sewing, embroidery and crochet work, traditionally female activities, to work a web of impulses, emotions and personal memories onto impersonal photos picked up in flea markets, out of grandmother’s trunks, from forgotten boxes in the attic or from collections of cemetery imagery, never ceasing to reveal identities by veiling the numerous faces, constructing over them stories in coloured threads.
A Ligurian artist and resident of London since adolescence and his years of artistic training, Maurizio Anzeri has become the creator and exhibitor of two and three-dimensional scenarios in which the main figures are individuals eclipsed in Beckett style. An unparalleled Lévi-Strauss-like weaver of relationships, Anzeri reconstructs figures of affection beginning from unknown faces, from ghosts of the mind and imagination. Bringing back to life a humanity buried in oblivion, this artist weaves a bridge of memories between presence and absence, between identity and alterity, searching for the centrality of an individual constantly in flight, pursued by a catch-machine that seizes it sometimes in progress sometimes in regress, in solitude or in the heart of the tribe, sometimes in the lands of Man the Maker, sometimes in those remote lands of humanity. Creating a geo-psycho-physical map of the landscape of the face, the artist assembles a procession of individuals called up from the dust of oblivion and from lost identity cards to produce a reflection, a game of identifications and losses, seeking an indefinable belonging, because driven in a continuous state of transit.
In patchwork, the group fabric of nomads, the centre does not exist, the work grows patch by patch in the course of continuous movement – whereas in embroidery, worked in the intimacy of the home, and also in crochet, despite being open in all directions a central motif is maintained no matter how complex the design.
The metaphorical significance of the main thread, a sign of the space-time continuity, becomes in Anzeri’s work a multi-coloured warp thread, which de-structures and restructures, manually restitching changing and mutating identities with needle, thread and crochet hook. A writer of wordless visionary novels and a reconstructor: through a conceptual and emotional game of glances, of familiarity and origins lost in anonymity, Anzeri sets in motion a theatre of remoteness in which the individual, the couple or the family group, posing in front of the photographer or snapped during holidays or leisure time, talk to the audience in the hall and return to life in front of the visitor to the exhibition.
In this artist’s work, close-ups of the face, torso or whole body distance themselves from giant urban posters, the movie screen, the television monitor or phone display to return to the black and white photo of the early 1900s, to the photo album, to the parade of family members, which among the flowers and hats brings the extended family together to celebrate new friendships and new couples. Sequences of faces of men in suits and ties, sailors and soldiers in uniform, reworked in embroidery, from eye sockets to bowties, moustaches, beards, or light and shadow that enhance their charm, are contrasted in the exhibition with sequences of women’s faces that show themselves or hide beneath networks of thick tonal webs of embroidery thread, trying, unseen, to scrutinize a likely interlocutor. The installation of family members on metal pedestals has intense anthropological connotations: the father and mother, symbolic and enigmatic clusters of hair with material faces, their features imploded.
Never ceasing to pick up threads and point out networks that are more intensive than extensive, more affection than effect, Anzeri works on the alleged objectivity of the photograph, on the representation of the face in a redefinition of the portrait, in order to carry out the mise en abyme (infinite duplication) of identity and relationships, to bring to the surface the clandestine presence that dwells in the individual.
Just as seventeenth century painters depicted the vanitas, the symbol of earthly transience, so the Ligurian artist uses his embroidery to cover in glamour and papillon, in seductive masks that are transparent or dense, refined or primitively tribal, in crowns, halos, diadems and flowers, the inevitable presence of the skull, conferring colour and warmth to the gelid and faded face of death.
Oscillating casually and ironically between the delirium of carnival, funereal mourning and the rituals of contemporary mythology, Maurizio Anzeri works at an uninterrupted writing of the labyrinth on the quicksands of identity.

10 gen 2010

Gian Domenico Sozzi, 'Brevi note su spose, angeli, dolore, assenza' di Filippo Betto (IT)

“Se la brina afferra la tua tenda / renderai grazie che la notte è consumata”

(E.Pound, “Cantos” 102).

Non so perché, pensando a Gian Domenico Sozzi e alle poche parole che volevo scrivere per lui, due versi di Pound hanno preso a vorticarmi precipitosamente nella zucca. Tant’è. Forse un tentativo di sfuggire l’impresa, nell’imbarazzo di inventarmi ora “critico” di una materia artistica dalla quale non mantengo il distacco necessario per poter “dire” completamente (“...ciò può venir solo mostrato, e non: detto, poiché qualunque cosa noi possiamo dire necessariamente avrà ancora la stessa struttura”, L. Wittgenstein).

Guardo a Gian Domenico Sozzi, davvero, come a una specie di angelo. Non credo siano questi il caso e la sede di informare su come la nostra frequentazione sia nata e cresciuta, e sotto quali ombre si sia nutrita e ristorata. Ma due nomi, forse, per dovere di onestà li devo fare, e quei nomi sono quelli di Luciano e Pier. Due nomi che hanno deciso i nostri percorsi come fasci di luce abbagliante impressionano la pellicola fotografica, definitivamente. Ma, si sa, la vita è ben strana alle volte, e anche la luce più intensa e brillante può dissolversi, interrompersi, svanire. Non resta allora che abituarsi all’oscurità o cercare il modo di mantenere virtualmente acceso il ricordo, la memoria di quei cosmici frammenti gioiosi, trattenerne almeno l’eco, la traccia del loro passaggio, impastare la realtà che continua ad ospitarci con l’alito di quella memoria. Gian Domenico Sozzi è - l’ho detto - un angelo, e la sua spada di fuoco è la sua arte, con quella spada può affrontare anche le minacce più temibili. Le fotografie raccolte in questo catalogo sono il segno tangibile della sua vittoria contro un nemico molto crudele, e quel nemico è l’Assenza. Chi conosce il lavoro che Gian Domenico Sozzi ha svolto negli anni troverà qui elementi di continuità e di spiazzante rottura. Continuità per il permanere di uno sguardo lieve, leggero, ingenuo quasi, nella scelta dei soggetti della rappresentazione; rottura prima di tutto per la tecnica adottata, quella della fotografia anziché del colore steso a mano, e ancora rottura nella acquisizione di una valenza solenne, cerimoniale, icastica e definitiva come si addice al più sacro e dolce dei riti, quello del matrimonio. Le fasi di quell’evento sono qui raccontate silenziosamente, accompagnate dall’obiettivo con un’attenzione che fa stupire noi testimoni per la sua commovente naturalezza. Ma è chiaro che si tratta di una naturalezza non solo primaria, originale come il famoso peccato, bensì conquistata con quella che immaginiamo essere stata un’elaborazione sofferta e necessaria, accettata infine come una croce leggera. Una naturalezza insomma che è frutto del congiungersi di innata sensibilità e paziente sottomissione agli eventi, fino alla conquista finale che la celebrazione enfatizza e le immagini documentano.

Spero, nel suggerire questa ipotesi di lettura delle fotografie, di non venire frainteso come interprete di una visione “trascendentale” o ideologicamente ortodossa rispetto ai dettami canonici, ad esempio, cattolici. Qui io non vedo tracce di teoremi secondo cui la transitorietà del dolore può essere superata dalla speranza di un futuro esterno e felice. Per il cristianesimo, infatti, che vive la terra come male e la morte come liberazione per il regno eterno, il dolore è solo di questo mondo e può essere dominato dalla fede del regno atteso. Due terre, dunque, una da sopportare, l’altra da fruire. A differenziarle è proprio la presenza e l’espulsione del dolore che quindi diventa il grande snodo dell’articolazione dei due mondi: uno denigrato per la presenza ineliminabile del dolore, l’altro atteso per la sua espulsione.

Piuttosto, mi piace pensare che nella serenità che queste immagini testimoniano si compia una specie di ideale olimpico. Se è vero che il dolore parla solo nei termini della cultura che lo interpreta, mi consola credere che Gian Domenico Sozzi adotti una lettura, magari involontaria, vicina per esempio a quella della Grecia antica (ma so che la Grecia è stata una patria di elezione sua e di Luciano) che, non sedotta da speranze ultraterrene, ha avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore, affrontandolo.

Secondo questa regola, la natura segue il suo ciclo facendo nascere e morire tutte le cose, uomo compreso. La risposta da offrire non è la ribellione a questo destino ma l’adesione alla terra godendo del qui e dell’ora, valorizzando infine il presente e amandolo con tutto il suo dolore, nella convinzione che vita e dolore sono inscindibili e nulla può essere davvero vissuto al di fuori di questa inscindibilità. La visione tragica del mondo consente così di amare quel che resta della vita anche perché la soffre, di appassionarsi e quindi di gridare, di abbracciarla infine per la sua bellezza che non è disgiunta dal dolore. E perciò non enfatizza la possibilità di una vita senza dolore, così come non insinua l’idea che il dolore possa essere separato dalla vita.

Insomma, “l’angelo” Sozzi mi sembra qui offrire un segno compiuto del possibile convivere con l’Assenza, e insieme superarla: di questo mi ha parlato la sposa sola. La brina ha afferrato la sua tenda (il suo velo) e lui, Gian Domenico, ha ringraziato che la notte è consumata. E la brina non può più, oramai, paralizzare il suo gesto.

Filippo Betto

Furini Arte Contemporanea takes part at Volta NY 4th - 7th March 2010

Previews: Thursday, March 4th, 2010
Guest of Honor: 11 a.m. - 12 p.m. (accessible by invitation from VOLTA or with The Armory Show VIP card)
VIP: 12 p.m. - 2 p.m.
Public Hours Daily: Thursday 2 p.m. - 8 p.m., Friday - Sunday, March 4th-7th, 2010, 11 a.m. - 7 p.m.
Location: 7 West 34th Street betw. 5th Ave. and 6th Ave.

9 gen 2010

Andrea Bianconi, 'Felice integrazione di razionalità ed emozioni' di Oliver Orest Tschirky (IT)

Felice integrazione di razionalità ed emozioni

Vicenza 7/11/09

Con una sofisticata installazione il giovane emergente artista internazionale Andrea Bianconi celebra lo spazio che Carlo Scarpa ha dedicato alla Biblioteca Internazionale “la Vigna” di Vicenza.
Andrea Bianconi è stato invitato dalla Biblioteca Internazionale “La Vigna” e dalla Fondazione Vignato per l’Arte per realizzare una installazione nell’antica Casa Gallo nell’edificio della biblioteca. L’appartamento e il museo privato furono ristrutturati dal geniale e famoso architetto Carlo Scarpa negli anni Sessanta per il suo amico e avvocato Ettore Gallo.
Oggi, l’artista italiano Andrea Bianconi, che vive negli Stati Uniti da diversi anni, presenta una mostra concettuale all’interno di questo museo storico occupando le stanze, affollate di oggetti personali, disposte attorno al famoso e luminoso atrio centrale della casa.
Come dice Andrea Bianconi: ‘una libreria è un posto di conoscenza ma dimostra anche quanto non conosciamo. Perciò ha un significato esistenziale’.
Infatti questa opera vuole essere un omaggio all’esistenza e alle emozioni più profonde. Con le sue sculture iper-colorate e in stile barocco, i collage, i disegni e le foto, Andrea Bianconi crea una installazione specifica per questo sito espositivo. Sembra di essere in un viaggio a tutto tondo nel suo mondo fatto di riflessioni ed esperienze sui libri e le informazioni, la libertà della mente, e sua moglie Sonia, la persona più importante della sua vita: pile di libri rendono evidente la topografia della conoscenza, un buco nero abbassa le cognizioni, un tavolo parla dell’amore e un video ci fa ridere e ballare all’infinito.
Per dare adeguato sviluppo al concetto dell’evento, Andrea Bianconi ha invitato il curatore internazionale e critico d’arte Oliver Orest Tschirky. Insieme hanno dato vita ad un sistema per dare un'interpretazione artistica dei difficili temi della conoscenza, della consapevolezza e dell'adorazione, integrandoli assieme. E alla fine, poiché la conoscenza è razionalità e il sentimento è emozione, Bianconi compie il gesto impossibile di riunirli in un gesto di felicità.

Oliver Orest Tschirky







Forthcoming at Furini Arte Contemporanea






William Cobbing, Reversals
6 Feb-23 March 2010

5 gen 2010

Philip Wiegard, Falten, 2007 @ Furini Arte Contemporanea (GB)

'Falten' di Rita Selvaggio

In Philip Wiegard artistic practice, there are no static elements nor values.

Rather, the process of visualization of the artwork hovers between the act of vision and that of memory, between comprehension and knowledge, forever in balance between the idea of an object and that of a thing, halfway between the notion of grammar and that of criterion.

Pushing, crushing, contorting, folding, pressing, mutilating, reassembling, these are the gestures that sustain the work of the German artist, a practice which is at the same time subtle and brutal. With great dexterity and ability, he destabilises the relation between form and function and subsequently places it literally in perspective by mixing the scales of the real.

The reliefs and installations by Wiegard are often realised with mundane and ordinary materials of commonplace memory. The very titles Bicycle Basket, Yellow Chair, Spaghetti Junction, and Spaghetti with Cheesetrace with irreverent precision the contours of an absurdly familiar landscape and by doing this, they narrate fragments of ordinary lives.

There’s something absurdly real in the images of Philip Wiegard. The artist gathers his materials from construction sites or he simply finds them in buildings undergoing renovation, while, most recently, he started collecting them from flea markets. He then alters these objects dramatically giving them a new life.

Wiegard uses the dada strategy, free from any modernist ideology, to explore purely formal issues using such objects collected from real life. This is how old cinema seats, abandoned bar stools, discarded shop counters and old floorboards, find themselves having to comply to the process of being dismantled and disassembled, mutilated and deprivedof their “limbs” in order to be reassembled once again losing, at the same time, their original three-dimensional quality. This newly acquired optical illusion is effectively negated with each movement of the gaze. Therefore, it is not possible to relate what you see with a process of improvisation.

A good example of this is Séance where a group of chairs of Napoleonic memory are placed round a table draped with precious damask.

This set mimics the act of mise en scène, and at the same time, that of an epilogue. The chairs appear like mute actors that, with their silence, push the gaze beyond the limits of interpretation in order to focus impatiently on the visual effect of the work.

The title of the show, “Falten”, is a German word that carries a double meaning. As a verb, it indicates, literally, the act of “folding” and suggests that constant movement between exterior and interior implicit in this gesture, whereas, as a noun, it stands for a drape or the loose folds of a cloth. Both these metaphorical elements, the act and the thing in itself, underline the intricate itinerary of the show. The concept of a “fold” so dominant and fundamental during the Baroque era, reverberates beyond its historical parameters and, just like Deleuze said in “Le pli: Leibniz et le baroque”,it can equally be applied to the contemporary in its most recent form as Michaux’s “La vie dans le plis”, Boulez’s “Fold After Fold”, and Simon Hantaï’s very own artistic practice of folding, can testify. The fold is a “process” that influences in different degrees and with varying speeds and vectors everything that becomes expressive matter.

With a good dose of irony and humour, Wiegard applies to sculpture the optical rules of pictorial perspective within a scale of 1:1. His objects, deprived of their original volume, are removed at the same time from their function and their materiality and are permanently suspended between the state of being an object and that of becoming an image. As a matter of fact, they seem to vanish in the process of transition from a bi-dimensional space to a three-dimensional one and back again, and in this perpetual movement they forget, with confident and unflappable lightness, their mundane function. The only thing left for them is a disillusioned gaze, which remains constantly suspended between the observation of an image in perspective, and that of deformed pieces of furniture.

4 gen 2010

William Cobbing seen by Alex Mar (GB)

Walking into William Cobbing's exhibition is like stepping into an active narrative momentarily at rest - like backstage at a theatre or on a film set. Photographs that incorporate found spaces, models and sculptural prosthetics are echoed in a group of three-dimensional works, charging the space with a sense of 'something happened here'.
There is a narrative link strongly reminiscent of the novels of J. G. Ballard - with a less technology-specific paranoia. Like Ballard, Cobbing believes our constructed environment and tools define us as much as we define them. But Cobbing takes a step in another direction, giving our environment and our machines a life separate from us: as if the functional spaces we have carved out for ourselves do not wish to be left empty. In the dead moments of the everyday they insinuate themselves.
On entering the gallery the viewer encountered a catalogue of prosthetic 'limbs': extending the gallery's water pipes down to the floor, joining two large figures like fantastical Siamese twins and linking a covered car with a tremendous tumorous shape of equal size. Sculptural prosthetics were also present in the photographs, connecting crashed cars from axle to engine or brake pedal to grill, joining a seated woman to an apartment wall, or linking two people in the front seat of a car. Cobbing's 'limbs' are limp, banal and elegant; their colours recall sensible cars, corporate offices, generic domestic spaces and dull flesh.
In one of the show's strongest images - from the 'Parting' series (all works 2002) - a woman, visible only from throat to knee, is seated in an Eames-style chair in a vague, cream-coloured domestic interior. Dressed in sensibly fashionable clothes in muted green and grey, she lifts her blouse ever so slightly to further reveal a slender, pale tubular form, which seamlessly connects her abdomen to the wall. The nature of the exchange is uncertain; the woman seems both at rest and carefully posed. It is an ambiguous but loaded image, slightly erotic and slightly sinister - and just a little bit Madonna and Child. The woman's limb is many things: at once a suggestive passageway, a lyrical formal gesture, a sci-fi mutation and a ghost story. The image is presented with a coolness that lends all the elements - the architecture, the prosthetic, the model and her costume - with equal weight. It is this coolness which echoes Ballard's seminal novel Crash (1973), in which the aftermaths of car collisions are re-imagined without the preceding violence, as if the woman driver had been born in this strangely still position, the curve of the steering wheel pressed deep into her thigh. Cobbing's work represents the blank, deprived spaces of modern life as sites of unnatural communion.
The show's centre stage was shared by two pieces that represent Cobbing's aesthetic spectrum: Chang and Eng and Drag. Chang and Eng is a formally striking, humourous and fresh take on figurative sculpture: a double-figure (named after the first Siamese twins) with inhumanly organic, connected upper bodies, and lower bodies dressed in matching grey trousers and polished belts and shoes. The skin of the joined torsos is of an exquisitely smooth and contoured painted plaster, with an almost Pop polish. Drag is also a striking double form: a car draped in a grey vinyl cover with a monstrous dark shape plugging a slender limb into its axle. But whereas Chang and Eng has a refined finish, Drag is one of the ugliest pieces I have seen in a while, its crude attachment clearly made of mounds of spray foam and its car cover alternately tight and puckered. Drag is a raw counterbalance to the clean execution of much of the rest of the show, highlighting the uneasy details of the other pieces, such as the horror-show effect of the hard flash on the models' skin, or the dirty edges of the car lot in which the 'Untitled (Crash)' series was shot.
The stylistic gap between these two pieces leaves open the question of which direction the work will now take. It is risky to be as explicit as Cobbing can be, treading a fine line between the enigmatic and the coolly illustrative, and the results are sometimes grotesque and often remarkable. One wonders whether things will get prettier or more horrible from here.

Frieze Issue 71
Galerie Fons Welters - Amsterdam
©Copyright Frieze 2006

Benoit Pailley 'Swimming Blue' (GB)

A common sight in our cityscape are the ubiquitous sheathes of tarp that protect the urban skeletons of new buildings — fragile and unformed.
In “Swimming Blue”, a series of 15 images, Pailley captures an allusive moment when the turbulent wind unhinges the tarp and suddenly this element that is meant to protect, is beholden to the mercurial choreography of mother nature.
This combative dance is set against a peaceful sky and we are caught between a constraining physical force and our ability to set ourselves free into a pool of blue — one that promises us that we can escape into our infinite dreams. These images are a poetic metaphor of how fragile life is and that those structures and ideas that are in place to protect us can be fleeting.

Born in 1978, Benoit Pailley lives and works in New York and Paris. He is photographer specializing in still life and installation photography.
Pailley erases the boundaries between art and fashion, between physical space and in print. Objects becomes “works of art” in environments that recreate gallery spaces. When conceptually appropriate, he builds installations that frame the ‘work’ in unique and stunning ways. His ability to manipulate the visual language and deftly confuse and cojoin the high and the low is both refreshing and engaging. In his stories, he infuses politics, poetry and humor.
His first solo exhibition, Passport, was presented at the Flux Foundation in Geneva in March 2008. He is a regular contributor to Sleek and Double magazines and won German’s Lead Award(Silver) in 2006 for best photographer in Still Life/Architecture category.

Studio visit: Andrea Bianconi di Amalia Piccinini (IT)

Oggi ho lo studio visit con l’artista italiano Andrea Bianconi, trasferitosi a New York da un anno e mezzo. Arrivata al suo indirizzo di Williamsburg a Brooklyn, mi accorgo che il suo studio è in realtà la sua abitazione, o meglio l’abitazione di qualcun altro.

Mi spiega infatti: “Il mio studio è una parte importante del lavoro, cerco di cambiare spesso studio, questo per affrontare e convivere con l’inaspettato. Cerco sempre lo spazio in base alle esigenze di un’idea, ma voglio sempre la casa degli altri. Chiedo ai proprietari di lasciarmela con tutte le loro cose, con i libri, con i loro ricordi, con le loro chiavi…Quella di ade
sso è una casa col giardino. Non ho mai avuto un giardino, forse a causa del mio rapporto conflittuale con la natura, non mi piace la natura. La prima cosa che
ho fatto è stata riempire il giardino di sedie. Ora lo sto affrontando…
Mi piace mischiare i miei libri con i loro libri, le mie chiavi con le loro, i miei ricordi con i loro ricordi. Vivo di situazioni che gli altri hanno creato, fotografo e analizzo tutti gli oggetti, tutto di tutto”.
Durante questa spiegazione, Bianconi mi mostra il giardino e le numerose chiavi appese al muro, poi ci sediamo sul divano e continuiamo il nostro studio visit circondati da oggetti misteriosi: cappelli, modellini, pupazzi e libri dei padroni di casa. Alle pareti è appesa una serie di disegni in bianco e nero che hanno per tema le corde annodate.
Amalia Piccinini: Come mai la corda e il nodo?
Andrea Bianconi: Le corde annodate sono lavori legati all’esistenza, sono corpi in una situazione di costruzione e decostruzione. Ho trovato l’immagine della corda nel manuale di sopravvivenza dell’esercito americano. Mi interessa molto la sua forma intesa come mistero del corpo, in una rappresentazione concentrica di vita e morte. Ho disegnato usando più penne dello stesso tipo, ma con quantità diversa d’inchiostro. In alcune di esse l’inchiostro si stava scaricando, quasi come se le penne stessero morendo.
Lentamente nasce un lungo discorso sull’esistenza. Oltre ai disegni, Bianconi mi mostra alcune foto tratte da una sua recente performance, rimango particolarmente colpita da quella con la gabbia in testa.Con una pacatezza disarmante, mi spiega che ogni giorno, ogni momento, i suoi pensieri sono troppi, non li contiene. Allora ha pensato di tenerli imprigionati dentro una gabbia per non farli uscire.
AB: Al centro del mio lavoro c’è l’individuo, io personalmente ho voglia di scappare da me stesso, ora sono a New York, ma forse vorrei scappare in un altro posto, e poi in un altro posto ancora...
Oppure quando sono solo, scappo verso la gente, ma quando sono in mezzo alla gente non vorrei più essere lì.
A un certo punto pronuncia una frase molto interessante: “io mi paralizzo”.
Mi viene in mente Kafka, lui invece menziona Joyce.
AB: Nell’Ulisse di Joyce viene eliminata ogni barriera fra la percezione reale delle cose e la rielaborazione mentale. Mi interessa la paralisi morale e di conseguenza la fuga dopo che abbiamo compreso la nostra condizione. Dunque isolamento e illusione perché la fuga è destinata a fallire sempre. Non si può fuggire dalla realtà.
Sono affascinato da coloro che decidono di raggiungere la cima dell’Everest. Gli alpinisti fuggono per andare sulla vetta più alta del mondo, rischiano, fanno fatica, in alcuni casi perdono la vita.
Che senso ha raggiungere una realtà apparente?
Alla fine devono scendere e tornare indietro.La Fantasy Ridge è la via dell’Everest così chiamata dagli alpinisti perché impossibile da praticare fisicamente. È un’idea, si percorre solo con l’immaginazione.
AP: Davanti al mare come ti poni?
AB: Mi fa paura, per affrontarlo ci devono essere le barche, come per il giardino ci devono essere le sedie.
AP: Se non ci sono le barche non entri in acqua?
AB: No, non entro.
AP: Stai lavorando con la galleria Barbara Davis di Houston. Che idea ti sei fatto delle gallerie di New York?
AB: New York è una galleria, è uno stato d’animo. Le gallerie nella galleria sono contenuti di un contenitore e il contenitore di contenuti.
AP: Ma sull’Everest ci saliresti?
AB: No.
AP: Grazie per avermi invitata e complimenti per il tuo lavoro. In bocca al lupo per la prossima mostra a Praga.
AB: Crepi. Ora mi incammino ed esco in giardino.
Mentre cammino verso la metropolitana ho il dubbio che invece, con il manuale di sopravvivenza, forse Bianconi salirebbe sulla cima dell’Everest.

Bianconi o... Bond? di Cristina Dal Ben e Mariangela Negroni, 26.06.2008 (IT)

Grande successo a New York della mostra “Bond” di Andrea Bianconi. Che con le sue “Spying Machines” indaga il desiderio umano di tenere gli altri sotto controllo. Una metafora del Grande Fratello

Che Andrea Bianconi fosse geniale ed estroso l'avevamo già capito quando alla festa per il lancio di Velvet quando il 9 novembre 2006 aveva partecipato con un incredibile elefante ricoperto di velluto bianco e decorato con decine di specchietti. Insomma noi sapevamo che il talento di Andrea era un valore sicuro e infatti lui non ha perso tempo nel fare il grande salto.
La sua prima personale presentata nella galleria di tendenza che si trova all'interno della boutique Kiton a New York è stata un successo. Il titolo della mostra "Bond", è una citazione di James Bond. Ma bond significa anche legame cioè, in questo caso, il collegamento di cose diverse tra di loro. Andrea utilizza per le sue opere oggetti fabbricati industrialmente come giochini di plastica, fibra di vetro, tessuto e ceramica, che copre con migliaia di elementi decorativi. Le sculture hanno un impatto molto forte, sono divertenti, kitsch ma comunque eleganti e preziose.
Questo iperdecorativismo viene sempre completato da un gioco che si ripete in tutte le sculture, le "Spying Machines". Ovvero degli spioncini che permettono allo spettatore di attraversare il corpo dell'opera con lo sguardo, interagendo così con l'opera stessa. Il meccanismo, apparentemente un po' complesso è la risposta a un'ossessione dell'artista: quella sullo spettatore e il suo sguardo, o per meglio dire alla sua paura dell'invasione della privacy e della propria sfera personale.
Il critico d'arte Oliver Tschrky, ha definito il "terzo occhio" di Bianconi una metafora della tecnologia che controlla le masse e del bisogno individuale e sociale di mantenere ogni cosa sotto controllo. Insomma un'allegoria del Grande Fratello.
Dopo il successo newyorchese è prevista per novembre 2008 una nuova personale dell'artista alla Barbara Davis Gallery a Houston in Texas. Che ovviamente non mancheremo di spiare...

'Abacaba, la nuova formula creativa dei conceptinprogress' di Micol Veroli, 2009 (IT)

Furini Arte contemporanea, galleria neonata a Roma ma che nel giro di una sola mostra sembra già avere le idee ben chiare per entrare nel giro degli spazi espositivi che contano. In occasione della sua seconda mostra presenta dal 25 novembre al 23 gennaio 2010 la mostra ABACABA del duo argentino conceptinprogress, curata da Antonio Arèvalo.

Gli artisti sviluppano un progetto sperimentale di trasposizione visiva di una composizione musicale realizzata in collaborazione con Damián Turovezky e ottenuta attraverso la sovrapposizione e moltiplicazione di baci, secondo la struttura del cosiddetto ABACABA. Tale misteriosa costruzione verbale che richiama alla mente formule magiche, indica quel ritmo geometrico che ripetendo uno schema metrico preciso sviluppa un andamento circolare la cui venatura alchemica, unita alla scientificità della struttura, segna il processo alla base del progetto concepito per Furini Arte Contemporanea.La variazione musicale del Rondò è elemento sostanziale di un progetto che si sviluppa su diverse linee formali rimandando ad una giustapposizione di concetti che – sulla traccia dell’atto amoroso – propone un’irriverente incastro d’allegorie: una elaborazione processuale come flusso associativo, anch’esso sviluppato secondo la struttura dell’ABACABA.

Disegni, fotografie, sculture, oggetti manipolati, costituiscono il corpus di un costante work in progress all’insegna della sperimentazione anche formale, propria della ricerca del collettivo.

Conceptinprogress è un collettivo artistico formato da Amparo Ferrari (Buenos Aires 1977, vive a Venezia) e Sebastian Zabronski (Buenos Aires 1974, vive a Venezia). Tra le mostre più recenti sono degne di nota: conceptinprogress solo show, Furini Arte Contemporanea – MiArt, Milano 2009; Correspondences 2.2. a cura di Harpa Projects, 26 CC, Roma 2009; Don’t desappear a cura di Adriana Forconi, Clara Lia Cristal e Guadalupe Chirotarrab, Expotrastiendas, Buenos Aires 2008; V Biennale Internazionale SIART-Bolivia 2007 a cura di Ramiro Garavito, Museo Nazionale Etnografico e Folclore, La Paz 2007.

Nel 2007 conceptinprogress è riuscita ad ottenere la borsa di studio per la residenza alla prestigiosa Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia.

Marlon De Azambuja 'Movimento Concreto' di Melania Rossi, 12.11.2009 (IT)

Dopo essere stata alla mostra di Marlon De Azambuja a cura di Antonio Arévalo e aver parlato a lungo con l'artista, cammino per la strada guardando per terra, cercando di cogliere geometrie possibili, unendo con linee immaginarie l’angolo di un marciapiede con la circonferenza di un tombino, e poi da qui fino al perimetro di un altro, stavolta quadrato. Cerco di capire se questi elementi urbani che solitamente sfuggono alla mia attenzione non abbiano il diritto invece di entrare a far parte della mia visione estetica del mondo. Inciampo. Furini Arte Contemporanea apre il nuovo spazio a Roma e ospita i lavori di questo artista brasiliano (nato a Santo Antonio da Patrulha, nel 1978), che gioca e prende spunto dal Movimento Concreto, importante tendenza culturale della fine degli anni ’50 in Brasile. L’ambiente e l’architettura sono argomenti centrali, protagonisti fisici e psicologici di un discorso ampio e complesso sull’arte, sul suo contenuto e la sua cifra estetica e vengono sottolineati dall’artista puntando la luce sugli elementi convenzionalmente ritenuti marginali, secondari. Ecco dunque un nuovo ordine. Possibile, esistente. Su una parete della galleria sono esposte le fotografie della serie “Metaesquema”, scattate a Roma. Marlon De Azambuja ha fotografato il “pavimento” della capitale e ritoccando le stampe con la china ha tracciato una mappa della città, costruendo ipotenuse da un tombino all’altro. Sulla parete di fronte l’artista esegue la medesima operazione con il nastro adesivo, mettendo in comunicazione la presa elettrica in basso a destra, con una mascherina (presumo per coprire cavi elettrici) in alto a sinistra. Ad emergere in tutta la loro dignità sono due “nei” sul muro bianco, che normalmente faremmo di tutto per nascondere.
Il profilo di São Paolo è invece l’oggetto di due video che l’artista ha girato camminando per le strade della città. Oscillando la telecamera dall’alto al basso, egli ha creato uno skyline in movimento in cui gli alti palazzi sembrano dei falli e simulano la penetrazione, anzi, come specifica l’artista stesso, la masturbazione. I temi e gli effetti del concretismo brasiliano si legano quindi ad un atteggiamento erotico, libero e teso a scardinare i punti di vista convenzionali. Torno così ad inciampare sui sampietrini romani cercando forme da inscrivere in una mappa immaginaria, se volessi potrei continuare all’infinito, scoprendo una varietà molteplice di schemi. Fino a casa.

1 gen 2010

Intervista a Fratelli calgaro, di Viviana Siviero (IT)

Immaginate di possedere un poco dell’anima di mondi affini ma differenti, quali l’Arte, la Moda, il Cinema, la Pubblicità e la Vita Reale e di combinarli in un’unica soluzione, palesata sul terreno patinato della fotografia: il risultato è un mix di contaminazioni molto contemporanee, perfette per rappresentare con il giusto linguaggio, una visione, purtroppo realistica, della società attuale, comprensiva anche di un certo grado di profezia sul futuro prossimo venturo…
Gli scatti della Fratelli Calgaro denunciano la preparazione di un set, per la messa in scena di un universo maleducato e continuamente al limite, che riesce però a tenere –sempre e comunque- il coltello dalla parte del manico. L’ironia di cui sono impregnate le immagini, fa da argine a quanto altrimenti finirebbe per scadere nel volgare o nello sfacciato: si può dire che esse si salvino giusto “all’ultimo sguardo”…

Viviana Siviero: Fratelli Calgaro è il nome di un sodalizio di cui sei rappresentante e in cui ti avvali della collaborazione di diversi soggetti –costumisti ed altro- per la realizzazione dei vari progetti…devo rivolgermi “a Te” oppure “a Voi”…?

Giuseppe Calgaro: Il nostro sodalizio si costituisce come epicentro di forze e di sinergie volte attorno alla costruzione del set. La Fratelli si pone nel Nord Est come polo magnetico di attrazione per trovarobe, stylist, attori e personalità varie provenienti dal mondo della moda.
La rappresentazione fotografica della Fratelli vuole ricostruire nello studio la decadenza di una certa provincia italiana mischiando il kitsch e situazioni retrò con un certo disagio generazionale.
Quindi “la Fratelli - parafrasando un nota campagna pubblicitaria - siamo noi”.

V.S.: Bocche spalancate su fisionomie tese nei personaggi che agiscono, vittime serene o sorridenti, costrizioni, liquidi “cinematografici” femmine inginocchiate ai piedi di uomini, intente a suonare un flauto, in paesaggi decorati dal museale volto-manifesto di Moira Orfei. Le vostre immagini creano una sorta di liquido amniotico in cui noi “ignari feti” viviamo beatamente un equilibrio fra finzione e realtà…

G.C.: La Fratelli è sempre rimasta affascinata dal recupero di oggetti utilizzati in contesti diversi da quelli per i quali erano stati creati. La nostra estetica privilegia il minore, mischiandolo o contrapponendolo ad elementi griffati..
Questo è il contrasto che mettiamo in scena: vogliamo nobilitare “la casa del geometra” per riappropriarci degli angoli morti delle nostre case, i non luoghi che sono la "taverna" o il "sottotetto". Al cervo la Fratelli preferisce il capriolo. Al centro del nostro lavoro scegliamo di porre un “Caino” che rompa le regole di un set attentamente ricostruito ed illuminato, in modo da bilanciarsi con il contenuto torbido delle immagini.

V.S.: E’ possibile scorgere nella tua poetica alcuni tratti di grandi fotografi: la grande padronanza tecnica, il surrealismo erotico, l’ironia e la vocazione provocatoria di Guy Bourdin (1928-1991) e l’analisi sociale del più emergente Gregory Crewdson, americano che costruisce set onirici fatti per mostrare il lato più inquietante di normali periferie urbane tristemente note.

G..C.: Di Crewdson ci interessa la preparazione cinematografica del set, le sue situazioni di attesa, di congelamento. Il lavoro di Bourdin, oggi finalmente riscoperto, è stato per noi assolutamente profetico.
Egli, in modo rivoluzionario, portò il mondo della strada dentro i servizi di Moda. Fino a lui la moda generalmente, era stata fotografata in eleganti atelier, fatta da un immaginario di donne composte e raffinate. La donna di Bourdin invece, è eccessiva: troppo trucco, troppo colore, troppe acconciature rosso fuoco. La sua è una donna volutamente ai limiti della volgarità, consapevole del suo eccesso; immagine che, in quegli anni, si contrappone a quella di Newton, e ad una borghesia decadente, che si preoccupa per lo più del ritardo della domestica.

V.S.: Prendendo a prestito l’imprescindibile Benjamin, visto la molteplicità limitata delle tue messe in scena, ti chiedo qual è la tua posizione nei confronti della riproducibilità tecnica della nostra epoca, aspetto sempre più complicato da valutare a causa dell’avvento di digitale e virtuale e al proliferare di esperienze…

G..C.: " L'epoca d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" è stato uno dei punti di approfondimento della mia tesi in estetica, discussa presso l'Universita di Filosofia di Venezia. Walter Benjamin parla della fotografia come "la dinamite del centesimo di secondo" che brucia e distrugge l'aura dell'opera d'arte nella sua comunicazione espositiva. Essa con la sua possibilità riproduttiva, apre la strada alla comunicazione di massa, portando ad un superamento del concetto "aristocratico" di arte. Oggi la comunicazione mediatica, privilegia la televisione: ma in questa inattualità contemporanea, la fotografia liberata, trova un nuovo sguardo auratico, finora inespresso.
Con l'avvento del digitale si perde così la magia del rito dell'immagine: le nostre foto bussano sul visore della macchina, ma la gratuità dello scatto ci porta a centinaia di foto distratte, che mai stamperemo. Da questa urgenza di tempi, la pellicola e tutta la fotografia chimica / analogica ne escono nobilitate.

V.S. :Ogni scatto dei Fratelli Calgaro viene realizzato in 5+1 esemplari nel formato grande e 5+1 in quello piccolo. Perché fra tante possibilità, ad averti incontrato è stata proprio la fotografia?

G.C.: Per noi lo scatto è il momento finale di una lunga ideazione e costruzione. Tutti i nostri lavori sono stampe chimiche da negativo fotografico.Dopo vari lavori preparatori vogliamo incidere la nostra immagine nella pellicola come una sorta di Sindone moderna. (Infatti possiamo dire che la Sindone è il più antico negativo esistente!).
La Fratelli privilegia una produzione accurata dove non tutte le immagini scattate trovano uno sbocco espositivo. Questo ci obbliga a scegliere con cura la partecipazione a mostre o ad eventi.
Il ritocco digitale non ci interessa: se qualcosa non va, lo scatto è eliminato o si ricostruisce il set.

V.S.: Un parallelo immediato - già evidenziato da Maurizio Sciaccaluga- è quello visivamente allusivo con le malefatte così stranamente musicate da Kubrick di Alex e dei suoi Drughi, nel celebre Clockwork Orange (da Burgees, 1962) ; la serie di scatti intitolata “Anima Nera” (2004) riflette sul concetto di satanismo alla maniera del grande Abel Ferrara…

F.C.: Amiamo il "b movie", privilegiamo il vecchio cinema, girato in "tecnicolor", piuttosto di quello girato in "panavision". Ci interessano quei colori saturi o “starati” tipici di una certa produzione indipendente. Nei nostri lavori si possono trovare parecchi riferimenti, estetici e non, relativi al cinema: il particolare "rosso" utilizzato da Dario Argento per il sangue, come la violenza inattesa e fumettistica dei film di Tarantino. Un rapporto inevitabile, viste le nostre tematiche, ma sempre rivolto a quelle videocassette polverose, che le videoteche hanno ormai dimenticato nel retrobottega.

Fratelli Calgaro è il nome del sodalizio rappresentato dal fotografo professionista Giuseppe Calgaro nato a Thiene (Vicenza) nel 1963. Vive e lavora a Sandrigo, Dueville e Milano.
www.furiniartecontemporanea.it
Andrea Bianconi , SAPERE NON SAPERE
pressrelease
Running @ Furini Arte Contemporanea until 23 Jan 2010
Conceptinprogress 'ABACABA'
Furini Arte Contemporanea takes part @ Volta New York, March 4th-7th 2010
coming soon --> WILLIAM COBBING in REVERSALS | 6 Feb - 23 Mar 2010