10 gen 2010

Gian Domenico Sozzi, 'Brevi note su spose, angeli, dolore, assenza' di Filippo Betto (IT)

“Se la brina afferra la tua tenda / renderai grazie che la notte è consumata”

(E.Pound, “Cantos” 102).

Non so perché, pensando a Gian Domenico Sozzi e alle poche parole che volevo scrivere per lui, due versi di Pound hanno preso a vorticarmi precipitosamente nella zucca. Tant’è. Forse un tentativo di sfuggire l’impresa, nell’imbarazzo di inventarmi ora “critico” di una materia artistica dalla quale non mantengo il distacco necessario per poter “dire” completamente (“...ciò può venir solo mostrato, e non: detto, poiché qualunque cosa noi possiamo dire necessariamente avrà ancora la stessa struttura”, L. Wittgenstein).

Guardo a Gian Domenico Sozzi, davvero, come a una specie di angelo. Non credo siano questi il caso e la sede di informare su come la nostra frequentazione sia nata e cresciuta, e sotto quali ombre si sia nutrita e ristorata. Ma due nomi, forse, per dovere di onestà li devo fare, e quei nomi sono quelli di Luciano e Pier. Due nomi che hanno deciso i nostri percorsi come fasci di luce abbagliante impressionano la pellicola fotografica, definitivamente. Ma, si sa, la vita è ben strana alle volte, e anche la luce più intensa e brillante può dissolversi, interrompersi, svanire. Non resta allora che abituarsi all’oscurità o cercare il modo di mantenere virtualmente acceso il ricordo, la memoria di quei cosmici frammenti gioiosi, trattenerne almeno l’eco, la traccia del loro passaggio, impastare la realtà che continua ad ospitarci con l’alito di quella memoria. Gian Domenico Sozzi è - l’ho detto - un angelo, e la sua spada di fuoco è la sua arte, con quella spada può affrontare anche le minacce più temibili. Le fotografie raccolte in questo catalogo sono il segno tangibile della sua vittoria contro un nemico molto crudele, e quel nemico è l’Assenza. Chi conosce il lavoro che Gian Domenico Sozzi ha svolto negli anni troverà qui elementi di continuità e di spiazzante rottura. Continuità per il permanere di uno sguardo lieve, leggero, ingenuo quasi, nella scelta dei soggetti della rappresentazione; rottura prima di tutto per la tecnica adottata, quella della fotografia anziché del colore steso a mano, e ancora rottura nella acquisizione di una valenza solenne, cerimoniale, icastica e definitiva come si addice al più sacro e dolce dei riti, quello del matrimonio. Le fasi di quell’evento sono qui raccontate silenziosamente, accompagnate dall’obiettivo con un’attenzione che fa stupire noi testimoni per la sua commovente naturalezza. Ma è chiaro che si tratta di una naturalezza non solo primaria, originale come il famoso peccato, bensì conquistata con quella che immaginiamo essere stata un’elaborazione sofferta e necessaria, accettata infine come una croce leggera. Una naturalezza insomma che è frutto del congiungersi di innata sensibilità e paziente sottomissione agli eventi, fino alla conquista finale che la celebrazione enfatizza e le immagini documentano.

Spero, nel suggerire questa ipotesi di lettura delle fotografie, di non venire frainteso come interprete di una visione “trascendentale” o ideologicamente ortodossa rispetto ai dettami canonici, ad esempio, cattolici. Qui io non vedo tracce di teoremi secondo cui la transitorietà del dolore può essere superata dalla speranza di un futuro esterno e felice. Per il cristianesimo, infatti, che vive la terra come male e la morte come liberazione per il regno eterno, il dolore è solo di questo mondo e può essere dominato dalla fede del regno atteso. Due terre, dunque, una da sopportare, l’altra da fruire. A differenziarle è proprio la presenza e l’espulsione del dolore che quindi diventa il grande snodo dell’articolazione dei due mondi: uno denigrato per la presenza ineliminabile del dolore, l’altro atteso per la sua espulsione.

Piuttosto, mi piace pensare che nella serenità che queste immagini testimoniano si compia una specie di ideale olimpico. Se è vero che il dolore parla solo nei termini della cultura che lo interpreta, mi consola credere che Gian Domenico Sozzi adotti una lettura, magari involontaria, vicina per esempio a quella della Grecia antica (ma so che la Grecia è stata una patria di elezione sua e di Luciano) che, non sedotta da speranze ultraterrene, ha avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore, affrontandolo.

Secondo questa regola, la natura segue il suo ciclo facendo nascere e morire tutte le cose, uomo compreso. La risposta da offrire non è la ribellione a questo destino ma l’adesione alla terra godendo del qui e dell’ora, valorizzando infine il presente e amandolo con tutto il suo dolore, nella convinzione che vita e dolore sono inscindibili e nulla può essere davvero vissuto al di fuori di questa inscindibilità. La visione tragica del mondo consente così di amare quel che resta della vita anche perché la soffre, di appassionarsi e quindi di gridare, di abbracciarla infine per la sua bellezza che non è disgiunta dal dolore. E perciò non enfatizza la possibilità di una vita senza dolore, così come non insinua l’idea che il dolore possa essere separato dalla vita.

Insomma, “l’angelo” Sozzi mi sembra qui offrire un segno compiuto del possibile convivere con l’Assenza, e insieme superarla: di questo mi ha parlato la sposa sola. La brina ha afferrato la sua tenda (il suo velo) e lui, Gian Domenico, ha ringraziato che la notte è consumata. E la brina non può più, oramai, paralizzare il suo gesto.

Filippo Betto

Furini Arte Contemporanea takes part at Volta NY 4th - 7th March 2010

Previews: Thursday, March 4th, 2010
Guest of Honor: 11 a.m. - 12 p.m. (accessible by invitation from VOLTA or with The Armory Show VIP card)
VIP: 12 p.m. - 2 p.m.
Public Hours Daily: Thursday 2 p.m. - 8 p.m., Friday - Sunday, March 4th-7th, 2010, 11 a.m. - 7 p.m.
Location: 7 West 34th Street betw. 5th Ave. and 6th Ave.