22 gen 2010

Pictures of the Year: The Photographers' Choice (GB)

Brett Rogers, Director, The Photographers’ Gallery: “Surely one of the most noteworthy discoveries of 2009 was the work of the Italian born (b1969) London-based artist Maurizio Anzeri who showed his beautiful but deeply disturbing stitched portraits at The Photographers’ Gallery at the same time as exhibiting his sculptures and objects at nearby Riflemaker in Soho. Using found photographs produced by high street photographers from the mid 20th century, Anzeri weaves his own newly constructed narratives onto these ‘canvases’ to explore ideas around persona.

Sometimes they look frighteningly surreal and transform an anondyne subject into a dark cipher- at other times the glorious colouring and benign embroidery elevate his subjects well beyond the realms of portraiture. One moment you imagine that the subject was a standard studio portrait but the minute Anzeri gets to work with his needle (yes, he does all the stitching himself), the image is transformed into a new object with its own enigmatic persona. It is no wonder he emerged from sculpture – leaving the Slade in 2005 having studied Sculpture both there and at Camberwell. What direction his work takes next is anyone’s guess – in the meantime, I hear many people are delivering sackfuls of redundant momochrome studio photos to his door to have them transformed!”

http://blogs.telegraph.co.uk/culture/lucydavies/100005959/pictures-of-the-year-the-photographers-choice/

ESCAPE ARTIST, Benoit Pailley looks at Andrea Bianconi for Double magazin (GB)

Fall 2008, Issue 16, p. 10

Alice Bertay, Stylist

Patricia Regan, Hair/Make up

Marlon Daube, Assistan Stylist

Benoit Pailley presents this collaboration with Italian arist Andrea Bianconi and stylist Alice Bertay. With this assignment for Double, Pailley brought to life Bianconi’s art practice of sculpture, collage and painting. Bianconi invents costume accesories in the manner of his work that reveal his preoccupations (paranoia, fantasia and escapism) while Bertay styles his cast of characters. Like his sculptures, Bianconi, now the subject, is posed in a gallery environment of gray floor and white wall, while Pailley assumes the role of artist and manipulates his form/model into contortions that are surreal, humorous and bizarre.

photo courtesy ©Benoit Pailley


















19 gen 2010

Maurizio Anzeri, 'Un clandestino sullo schermo del volto/A Clandestine Presence on the Screen of the Face', Viana Conti (IT-GB)

(scroll for English version)

Il primo piano del cinema tratta innanzitutto il volto come un paesaggio, definendosi così come buco nero e muro bianco, schermo e cinepresa. Ma già nelle altre arti come l’architettura, la pittura, perfino il romanzo, sono i primi piani che animano e inventano ogni correlazione. E tua madre è un paesaggio o un volto? Un volto o un’officina? (Godard). Non esiste un volto che non riavvolga un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non esiste un paesaggio che non si animi di un volto amato o sognato, che non elabori un volto a venire o già passato…Il potere materno passa attraverso il volto durante l’allattamento; il potere passionale passa attraverso il volto dell’amato, anche nel palpeggiamento; Il potere politico passa attraverso il volto del capo, gli striscioni, le icone e le fotografie, pure nelle azioni di massa; Il potere del cinema passa attraverso il volto della star e il primo piano, il potere della televisione lo stesso. Il volto qui non agisce come individualità, è l’individuazione che deriva dalla necessità che ci sia un volto…Perfino le maschere assicurano l’appartenenza della testa al corpo, più che non ne rilevino un volto.

Gilles Deleuze_Félix Guattari, Mille Plateaux, Les Éditions de minuit, 1980, Parigi; pagine 212,215, 216
Presentando la prima in Italia della mostra personale Family Day, Maurizio Anzeri provocatoriamente rappresenta l’impresentabile del soggetto, della coppia, del gruppo familiare in un Paese che, con la manifestazione del 12 maggio 2007 a Roma, si è ufficialmente proposto l’obiettivo di rimettere il nucleo della famiglia tradizionale al centro della vita culturale, sociale, sessuale, economico-politica della nazione, richiamando così i simulacri del paternalismo nelle imprese e nella scuola, la moralizzazione nel risparmio, l’igienizzazione nella medicina, per restaurare quella che il sociologo Jacques Donzelot aveva, negli anni Settanta, denominato La Police des Familles. Passando dallo speculativo - il cui linguaggio dialettico sopprime l’alterità, assegna funzioni, attitudini, identità, relativamente allo stereotipo del sesso - allo speculare, ossia all’immaginario, secondo il pensiero di Klossowski, l’artista dà la parola all’indicibile, all’interiorità pulsionale, alla condizione di passaggio dal collettivo al connettivo, dal femminile e maschile al transgender, in una concatenazione di riflessioni sull’identità di se stesso, del suo doppio, dell’altro, dell’infinito dilatarsi dell’io. Come già altri esponenti internazionali dell’arte contemporanea, di entrambi i sessi, tra cui Alighiero e Boetti, Rosemarie Trockel, Francesco Vezzoli, Mona Hatoun, Rainer Ganahl, Ghada Amer, Maurizio Vetrugno, Alvaro Siza, Maria Lai, Ampelio Zappalorto, Maurizio Anzeri si esprime emblematicamente nell’installazione, nella fotografia, nel disegno, ricorrendo al cucito a macchina di matasse di capelli artificiali, e al ricamo, sistemi di segni, convenzionalmente e secondo modelli di assegnazione e di appartenenza eterodiretti, femminili. A questo proposito, tuttavia, è opportuno ricordare che il macramè, di cui fa uso questo artista non a caso ligure, viene importato in Italia nel tredicesimo secolo da marinai, che ne avevano imparato l’esecuzione dagli arabi e si diffonde in seguito soprattutto in Liguria, dove gli asciugamani vengono chiamati con questo nome. Un carattere della natura e del territorio d’origine dell’autore, ritorna nell’uso ricorrente dell’uncinetto, il cui punto base è ancor oggi quello ad anello, che riprende motivi decorativi a spiga, ventaglio, rosetta, carciofo, limone, margherita, grappolo, tramandati di generazione in generazione, rinvianti alla cultura mediterranea. In questa mostra l’artista interviene con intrecci di pulsioni, emozioni, ricordi personali su fotografie impersonali, ripescate nei mercatini delle pulci, nei bauli della nonna, negli scatoloni dimenticati in soffitta, nelle raccolte di immagini cimiteriali, con il cucito, il ricamo, il lavoro all’uncinetto, attività tradizionalmente femminili, non cessando di svelare identità velandone i molteplici volti, costruendovi sopra storie di fili colorati. Artista ligure, residente dall’adolescenza e dagli anni della formazione artistica a Londra, Maurizio Anzeri è diventato un ideatore di scenari espositivi bidimensionali e tridimensionali i cui protagonisti sono soggetti beckettianamente eclissati. Inarrivabile, lévistraussiano, tessitore di parentele, Anzeri ricostruisce figure d’affezione a partire da volti sconosciuti, da fantasmi dell’immaginario e della mente. Riportando in vita un’umanità sepolta dall’oblio, questo autore intesse un ponte di memorie tra la presenza e l’assenza, tra l’identità e l’alterità, persegue la centralità di un soggetto perennemente in fuga, inseguito da una macchina di cattura che lo coglie ora in progress ora in regress, in solitudine o in seno alla tribù, ora sui territori dell’homo faber ora su quelli remoti dell’anthropos. Disegnando una mappa geo-psico-fisica di un paesaggio del volto, l’artista dà convegno a una processione di soggetti richiamati dalla polvere dell’oblìo, da carte di identità perdute, per produrre un rispecchiamento, un gioco di riconoscimenti e smarrimenti, ricercando un’appartenenza indefinibile, perché sospinta in una continua condizione di transito.
Mentre nel patchwork, tessuto di gruppo dei nomadi, il centro non esiste, crescendo di ritaglio in ritaglio durante gli spostamenti, nel ricamo, lavorato nell’intimità domestica, come nel crochet, pur aperto in tutte le direzioni, per quanto complessi siano, si mantiene un motivo centrale.
La valenza metaforica del filo rosso, come segno di continuità spazio-temporale, diventa, nella sua opera, un ordito multicolore, che destruttura e ristruttura, ricucendole manualmente con ago, filo, uncinetto, identità cangianti e mutanti. Scrittore visionario di romanzi senza parole, ricostruttore, attraverso un concettuale ed emozionale gioco di sguardi, di familiarità e origini perdute nell’anonimato, Anzeri attiva un teatro della lontananza in cui, il singolo, la coppia, il gruppo familiare, in posa davanti al fotografo o nell’istantanea scattata nei momenti di vacanze e di svago, dialogano con lo spettatore in sala, si rianimano davanti al visitatore della mostra. Con questo artista i primi piani del volto, del busto, della figura intera, prendono le distanze dai megamanifesti urbani, dallo schermo cinematografico, dal monitor televisivo, dal display del telefonino, per ritornare alla foto in bianco e nero del Primo Novecento, all’album dei ricordi, alla parata di famiglia, che riunisce il parentado per festeggiare, tra fiori e cappellini, nuove amicizie, nuove coppie. Sequenze di volti di uomini in giacca e cravatta, di marinai e soldati in divisa, rivisitati, nel ricamo, da orbite a farfalla, baffi, barbe, ombre e luci che ne esaltano il fascino, si confrontano, in mostra, a sequenze di volti di donne, che si mostrano o si nascondono sotto fitti reticoli tonali di cotone da ricamo, cercando di scrutare, non viste, un possibile interlocutore. Di intensa connotazione antropologica, l’installazione su piedistalli metallici delle figure di famiglia, del padre e la madre: emblematici ed enigmatici agglomerati di capelli, dal volto materico, fisiognomicamente imploso.
Non cessando di pescare trame, di delineare reti più intensive che estensive, di affetti più che di effetti, Anzeri lavora sulla pretesa oggettività della fotografia, sul ritrarsi del volto nella ridefinizione del ritratto, per praticare la mise en abyme dell’identità, del rapporto relazionale, per far riaffiorare il clandestino che abita il soggetto.
Come il pittore del Seicento raffigura le Vanitas, simbolo della caducità, nelle sue Nature morte, così l’artista ligure, ricamando, ammanta di glamour, papillon, maschere seducenti, trasparenti o occlusive, raffinate o primitivamente tribali, corone, aureole, diademi, fiori, l’imprescindibile presenza del teschio, conferendo colore e calore al volto gelido e scolorito della morte.
Oscillando disinvoltamente e ironicamente dal delirio del carnevale al lutto del funerale, ai rituali della mitologia contemporanea, Maurizio Anzeri lavora a un’ininterrotta scrittura del labirinto sulle sabbie mobili dell’identità.

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“A cinema close-up treats the face first of all as a landscape, thus defining it as a black hole and a white wall, a screen and camera. But in other arts too, such as architecture, painting, even the novel, close-ups are what enliven and create every correlation. ‘So is your mother a landscape or a face? A face or a factory?’ (Godard). No face exists that does not incorporate an unknown, unexplored landscape; no landscape exists that is not enlivened by the face of someone dreamt of or loved, that does not produce a face from the future or the past... Maternal power is transmitted through the mother’s face during breast feeding; the power of passion is transmitted through the loved one’s face, even when caressing; political power is transmitted through the leader’s face, banners, icons and photographs – even through mass action; the power of cinema is transmitted through the face of the star and close-ups, and the same is true of the power of television. The function of the image here is not its individuality but the identification that arises from the need for a face... Even masks assure us that the head belongs to the body more than they replace the face.”
Gilles Deleuze and Félix Guattari, Mille Plateaux, Les Éditions de minuit, 1980, Paris; pages 212, 215, 216
Presenting the opening in Italy of his exhibition Family Day, Maurizio Anzeri provocatively depicts the unpresentable aspects of the individual, the couple and the family group in a country that, with the demonstration in Rome on 12th May 2007, officially proposed its aim of putting the traditional family nucleus back at the centre of the cultural, social, sexual and economico-political life of the nation, thus invoking the spectres of paternalism in firms and schools, of moralization in saving, and of sanitization in medicine, in order to restore what the sociologist Jacques Donzelot in the Seventies called the Police des Familles.
By moving from the speculative – whose dialectic language suppresses alterity and assigns functions, attitudes and identities in relation to gender stereotypes – to the specular, i.e., to the imaginary, Klossowski claims the artist gives voice to the inexpressible, to the inner drive, to the state of transition from the collective to the connective, from male and female to transgender, in a sequence of reflections on his own identity, his double, the ‘other’ and the infinite expansion of the ‘self’.
Like other male and female international exponents of contemporary art, such as Alighiero and Boetti, Rosemarie Trockel, Francesco Vezzoli, Mona Hatoun, Rainer Ganahl, Ghada Amer, Maurizio Vetrugno, Alvaro Siza, Maria Lai and Ampelio Zappalorto, Maurizio Anzeri expresses himself symbolically through installations, photography, and drawing, he also machine sews hanks of false hair and uses embroidery – sign systems that according to convention and assigned and other-directed models, are considered feminine. However, it should be remembered that the macramé used by this artist, who happens to be from Liguria, was brought to Italy in the thirteenth century by sailors who had learned it from the Arabs, and that the art spread particularly in Liguria, where macramé is a word used for towels.
A characteristic of the nature and place of origin of the artist reappears in the recurrent use of crochet, whose basic stitch is still the ring, incorporating decorative motifs such as the ear of corn, fan, rosette, artichoke, lemon, daisy and cluster, handed down from one generation to the next and a reference to Mediterranean culture.
For this exhibition, the artist has used sewing, embroidery and crochet work, traditionally female activities, to work a web of impulses, emotions and personal memories onto impersonal photos picked up in flea markets, out of grandmother’s trunks, from forgotten boxes in the attic or from collections of cemetery imagery, never ceasing to reveal identities by veiling the numerous faces, constructing over them stories in coloured threads.
A Ligurian artist and resident of London since adolescence and his years of artistic training, Maurizio Anzeri has become the creator and exhibitor of two and three-dimensional scenarios in which the main figures are individuals eclipsed in Beckett style. An unparalleled Lévi-Strauss-like weaver of relationships, Anzeri reconstructs figures of affection beginning from unknown faces, from ghosts of the mind and imagination. Bringing back to life a humanity buried in oblivion, this artist weaves a bridge of memories between presence and absence, between identity and alterity, searching for the centrality of an individual constantly in flight, pursued by a catch-machine that seizes it sometimes in progress sometimes in regress, in solitude or in the heart of the tribe, sometimes in the lands of Man the Maker, sometimes in those remote lands of humanity. Creating a geo-psycho-physical map of the landscape of the face, the artist assembles a procession of individuals called up from the dust of oblivion and from lost identity cards to produce a reflection, a game of identifications and losses, seeking an indefinable belonging, because driven in a continuous state of transit.
In patchwork, the group fabric of nomads, the centre does not exist, the work grows patch by patch in the course of continuous movement – whereas in embroidery, worked in the intimacy of the home, and also in crochet, despite being open in all directions a central motif is maintained no matter how complex the design.
The metaphorical significance of the main thread, a sign of the space-time continuity, becomes in Anzeri’s work a multi-coloured warp thread, which de-structures and restructures, manually restitching changing and mutating identities with needle, thread and crochet hook. A writer of wordless visionary novels and a reconstructor: through a conceptual and emotional game of glances, of familiarity and origins lost in anonymity, Anzeri sets in motion a theatre of remoteness in which the individual, the couple or the family group, posing in front of the photographer or snapped during holidays or leisure time, talk to the audience in the hall and return to life in front of the visitor to the exhibition.
In this artist’s work, close-ups of the face, torso or whole body distance themselves from giant urban posters, the movie screen, the television monitor or phone display to return to the black and white photo of the early 1900s, to the photo album, to the parade of family members, which among the flowers and hats brings the extended family together to celebrate new friendships and new couples. Sequences of faces of men in suits and ties, sailors and soldiers in uniform, reworked in embroidery, from eye sockets to bowties, moustaches, beards, or light and shadow that enhance their charm, are contrasted in the exhibition with sequences of women’s faces that show themselves or hide beneath networks of thick tonal webs of embroidery thread, trying, unseen, to scrutinize a likely interlocutor. The installation of family members on metal pedestals has intense anthropological connotations: the father and mother, symbolic and enigmatic clusters of hair with material faces, their features imploded.
Never ceasing to pick up threads and point out networks that are more intensive than extensive, more affection than effect, Anzeri works on the alleged objectivity of the photograph, on the representation of the face in a redefinition of the portrait, in order to carry out the mise en abyme (infinite duplication) of identity and relationships, to bring to the surface the clandestine presence that dwells in the individual.
Just as seventeenth century painters depicted the vanitas, the symbol of earthly transience, so the Ligurian artist uses his embroidery to cover in glamour and papillon, in seductive masks that are transparent or dense, refined or primitively tribal, in crowns, halos, diadems and flowers, the inevitable presence of the skull, conferring colour and warmth to the gelid and faded face of death.
Oscillating casually and ironically between the delirium of carnival, funereal mourning and the rituals of contemporary mythology, Maurizio Anzeri works at an uninterrupted writing of the labyrinth on the quicksands of identity.

10 gen 2010

Gian Domenico Sozzi, 'Brevi note su spose, angeli, dolore, assenza' di Filippo Betto (IT)

“Se la brina afferra la tua tenda / renderai grazie che la notte è consumata”

(E.Pound, “Cantos” 102).

Non so perché, pensando a Gian Domenico Sozzi e alle poche parole che volevo scrivere per lui, due versi di Pound hanno preso a vorticarmi precipitosamente nella zucca. Tant’è. Forse un tentativo di sfuggire l’impresa, nell’imbarazzo di inventarmi ora “critico” di una materia artistica dalla quale non mantengo il distacco necessario per poter “dire” completamente (“...ciò può venir solo mostrato, e non: detto, poiché qualunque cosa noi possiamo dire necessariamente avrà ancora la stessa struttura”, L. Wittgenstein).

Guardo a Gian Domenico Sozzi, davvero, come a una specie di angelo. Non credo siano questi il caso e la sede di informare su come la nostra frequentazione sia nata e cresciuta, e sotto quali ombre si sia nutrita e ristorata. Ma due nomi, forse, per dovere di onestà li devo fare, e quei nomi sono quelli di Luciano e Pier. Due nomi che hanno deciso i nostri percorsi come fasci di luce abbagliante impressionano la pellicola fotografica, definitivamente. Ma, si sa, la vita è ben strana alle volte, e anche la luce più intensa e brillante può dissolversi, interrompersi, svanire. Non resta allora che abituarsi all’oscurità o cercare il modo di mantenere virtualmente acceso il ricordo, la memoria di quei cosmici frammenti gioiosi, trattenerne almeno l’eco, la traccia del loro passaggio, impastare la realtà che continua ad ospitarci con l’alito di quella memoria. Gian Domenico Sozzi è - l’ho detto - un angelo, e la sua spada di fuoco è la sua arte, con quella spada può affrontare anche le minacce più temibili. Le fotografie raccolte in questo catalogo sono il segno tangibile della sua vittoria contro un nemico molto crudele, e quel nemico è l’Assenza. Chi conosce il lavoro che Gian Domenico Sozzi ha svolto negli anni troverà qui elementi di continuità e di spiazzante rottura. Continuità per il permanere di uno sguardo lieve, leggero, ingenuo quasi, nella scelta dei soggetti della rappresentazione; rottura prima di tutto per la tecnica adottata, quella della fotografia anziché del colore steso a mano, e ancora rottura nella acquisizione di una valenza solenne, cerimoniale, icastica e definitiva come si addice al più sacro e dolce dei riti, quello del matrimonio. Le fasi di quell’evento sono qui raccontate silenziosamente, accompagnate dall’obiettivo con un’attenzione che fa stupire noi testimoni per la sua commovente naturalezza. Ma è chiaro che si tratta di una naturalezza non solo primaria, originale come il famoso peccato, bensì conquistata con quella che immaginiamo essere stata un’elaborazione sofferta e necessaria, accettata infine come una croce leggera. Una naturalezza insomma che è frutto del congiungersi di innata sensibilità e paziente sottomissione agli eventi, fino alla conquista finale che la celebrazione enfatizza e le immagini documentano.

Spero, nel suggerire questa ipotesi di lettura delle fotografie, di non venire frainteso come interprete di una visione “trascendentale” o ideologicamente ortodossa rispetto ai dettami canonici, ad esempio, cattolici. Qui io non vedo tracce di teoremi secondo cui la transitorietà del dolore può essere superata dalla speranza di un futuro esterno e felice. Per il cristianesimo, infatti, che vive la terra come male e la morte come liberazione per il regno eterno, il dolore è solo di questo mondo e può essere dominato dalla fede del regno atteso. Due terre, dunque, una da sopportare, l’altra da fruire. A differenziarle è proprio la presenza e l’espulsione del dolore che quindi diventa il grande snodo dell’articolazione dei due mondi: uno denigrato per la presenza ineliminabile del dolore, l’altro atteso per la sua espulsione.

Piuttosto, mi piace pensare che nella serenità che queste immagini testimoniano si compia una specie di ideale olimpico. Se è vero che il dolore parla solo nei termini della cultura che lo interpreta, mi consola credere che Gian Domenico Sozzi adotti una lettura, magari involontaria, vicina per esempio a quella della Grecia antica (ma so che la Grecia è stata una patria di elezione sua e di Luciano) che, non sedotta da speranze ultraterrene, ha avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore, affrontandolo.

Secondo questa regola, la natura segue il suo ciclo facendo nascere e morire tutte le cose, uomo compreso. La risposta da offrire non è la ribellione a questo destino ma l’adesione alla terra godendo del qui e dell’ora, valorizzando infine il presente e amandolo con tutto il suo dolore, nella convinzione che vita e dolore sono inscindibili e nulla può essere davvero vissuto al di fuori di questa inscindibilità. La visione tragica del mondo consente così di amare quel che resta della vita anche perché la soffre, di appassionarsi e quindi di gridare, di abbracciarla infine per la sua bellezza che non è disgiunta dal dolore. E perciò non enfatizza la possibilità di una vita senza dolore, così come non insinua l’idea che il dolore possa essere separato dalla vita.

Insomma, “l’angelo” Sozzi mi sembra qui offrire un segno compiuto del possibile convivere con l’Assenza, e insieme superarla: di questo mi ha parlato la sposa sola. La brina ha afferrato la sua tenda (il suo velo) e lui, Gian Domenico, ha ringraziato che la notte è consumata. E la brina non può più, oramai, paralizzare il suo gesto.

Filippo Betto

Furini Arte Contemporanea takes part at Volta NY 4th - 7th March 2010

Previews: Thursday, March 4th, 2010
Guest of Honor: 11 a.m. - 12 p.m. (accessible by invitation from VOLTA or with The Armory Show VIP card)
VIP: 12 p.m. - 2 p.m.
Public Hours Daily: Thursday 2 p.m. - 8 p.m., Friday - Sunday, March 4th-7th, 2010, 11 a.m. - 7 p.m.
Location: 7 West 34th Street betw. 5th Ave. and 6th Ave.

9 gen 2010

Andrea Bianconi, 'Felice integrazione di razionalità ed emozioni' di Oliver Orest Tschirky (IT)

Felice integrazione di razionalità ed emozioni

Vicenza 7/11/09

Con una sofisticata installazione il giovane emergente artista internazionale Andrea Bianconi celebra lo spazio che Carlo Scarpa ha dedicato alla Biblioteca Internazionale “la Vigna” di Vicenza.
Andrea Bianconi è stato invitato dalla Biblioteca Internazionale “La Vigna” e dalla Fondazione Vignato per l’Arte per realizzare una installazione nell’antica Casa Gallo nell’edificio della biblioteca. L’appartamento e il museo privato furono ristrutturati dal geniale e famoso architetto Carlo Scarpa negli anni Sessanta per il suo amico e avvocato Ettore Gallo.
Oggi, l’artista italiano Andrea Bianconi, che vive negli Stati Uniti da diversi anni, presenta una mostra concettuale all’interno di questo museo storico occupando le stanze, affollate di oggetti personali, disposte attorno al famoso e luminoso atrio centrale della casa.
Come dice Andrea Bianconi: ‘una libreria è un posto di conoscenza ma dimostra anche quanto non conosciamo. Perciò ha un significato esistenziale’.
Infatti questa opera vuole essere un omaggio all’esistenza e alle emozioni più profonde. Con le sue sculture iper-colorate e in stile barocco, i collage, i disegni e le foto, Andrea Bianconi crea una installazione specifica per questo sito espositivo. Sembra di essere in un viaggio a tutto tondo nel suo mondo fatto di riflessioni ed esperienze sui libri e le informazioni, la libertà della mente, e sua moglie Sonia, la persona più importante della sua vita: pile di libri rendono evidente la topografia della conoscenza, un buco nero abbassa le cognizioni, un tavolo parla dell’amore e un video ci fa ridere e ballare all’infinito.
Per dare adeguato sviluppo al concetto dell’evento, Andrea Bianconi ha invitato il curatore internazionale e critico d’arte Oliver Orest Tschirky. Insieme hanno dato vita ad un sistema per dare un'interpretazione artistica dei difficili temi della conoscenza, della consapevolezza e dell'adorazione, integrandoli assieme. E alla fine, poiché la conoscenza è razionalità e il sentimento è emozione, Bianconi compie il gesto impossibile di riunirli in un gesto di felicità.

Oliver Orest Tschirky







Forthcoming at Furini Arte Contemporanea






William Cobbing, Reversals
6 Feb-23 March 2010